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2014


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Corpo e spazio. A partire da Francesca Woodman
A cura di Francesca Brencio




Come occhi interni tra i fini capelli vegetali
di Giuseppe Crivella

30 giugno 2014




1. Da uno spazio apofatico

Così [...] ritornano le immagini
risalgono da un loro lungo sonno,
si scavano […] tracce, cammini nell’opacità.
(M. Luzi)


Ogni spazio è deriva e origine, vertice cieco di un convergere diffuso di punti attraverso i quali la linea ignota dell’inorganizzato principia il suo vaneggiamento lungo quella soglia ove l’immagine eccede se stessa verso un contratto brancolamento di luoghi periferici, seppur tutti allineati sul perimetro ellittico del loro preciso forcludersi. Ma forcludersi da cosa e in cosa? E soprattutto, in quale accezione interviene qui la forclusione?

In uno dei passi più densi e complessi dei suoi Écrits, Jacques Lacan presenta l’attività retorse della forclusione – strettamente associata in questo passo alla Verdrängung e alla Verneinung – parlandone come di ciò i cui effetti, prodotti dall’«Entstellung du signifiant […], font figure d’ombres et de reflets». Lacan continua affermando che qui si tratta di
abstraire une forme generale de phénomènes, dont la particularité dans notre experience resterait [...] l’essentiel, et dont ce ne serait pas sans artifice qu’on romprait le composite original. [1]
Struttura obliqua d’effrazione e raccordo, la forclusione salda in un’unica funzione paradossale due fattori apparentemente disgiunti e non assimilabili, aggregati qui però in un solo piano di sviluppo tramite il sottile tracciato di una relazione proficuamente antinomica: la forclusione reintergra per esclusione il livello immaginario, lasciando affiorare nel felpato doppio fondo del reale i verticali paesaggi del simbolico, come il punto cieco di una raffigurazione che soltanto ai margini della propria scena istituisce operazioni d’ordine unicamente per renderne pensabile la fragilità.

Di fronte ad una fotografia di Francesca Woodman si arriva a rompere le composite original mostrando come l’immagine evapori verso il proprio centro, attratta nel nodo che le superfici di contatto e tracollo tra lo spazio e la luce, il corpo e il vuoto, le ombre e la segreta mobilità degli oggetti stringono in un desiderio convulso di riconoscibilità, il quale li porta tuttavia a smarrirsi verso un delicato oblio della figura.

Lo spazio quindi qui racchiude per forclusione: per quanto esso si compatti e si compagini in una cubatura tridimensionale perfettamente centrata su se stessa, sulla ineluttabilità della sua conchiusa geometria, i luoghi che da esso si sprigionano alludono sempre alla palpebrante virtualità di un altrove tanto irreperibile quanto ineludibile, insituabile rispetto a quello stesso spazio da cui deriva, come per una fuga di volumi incongrui rispetto al sistema d’assi, superfici, vertici che l’hanno generati. Lo spazio, nelle fotografie di Woodman, è il portato paradossale di una prospettiva piagata, assolutamente non negata, ma retta e scandita da un principio d’esitazione e disorientamento che rende i corpi posti in esso luoghi d’iscrizione di una ostinata messa in crisi del rappresentabile, che qui altro non è che quel composite original a cui allude Lacan.
Pertanto, proprio attraverso il suo esatto racchiudersi su se stesso, lo spazio qui si fa strappo, propagazione profonda, ma quasi invisibile, di un alibi che da quello si distanzia, in quello si allontana, producendovisi quale ipotesi deviante di una costruzione che intrattiene con le proprie parti una relazione di divergenza, vorremmo dire di infermità e slittamento, nelle cui articolate dinamiche l’allestimento della scena si trova ad essere depistata rispetto alla retta esposizione dell’oggetto, essendo portata piuttosto ad avvolgersi attorno ad un’esigenza d’ordine che però qui vale unicamente quale istanza vuota.

È a partire da questa istanza vuota che lo spazio di presentazione dell’immagine diventa una sorta di postulato in fieri, in cui infiniti e indeterminati termini di attualizzazione istituiscono una sfocata parafrasi di quella stessa istanza vuota, la cui persistenza sostiene ogni idea di spazio rendendolo possibile, facendo di esso un teatro anatomico di scomposizioni e trasposizioni, il quale porta la figura ora a disfarsi secondo le sue innumerevoli frange di irrappresentabilità, ora invece a compattarsi in una concrezione plurale di forme incompiute. Lo spazio oscilla in una raggelata ipertrofia d’ambienti liminari — seppur remoti — distinti — per quanto emboités gli uni negli altri — secondo una perversa logica di intrusione reciproca che fa di quegli stessi ambienti i luoghi concentrici di una dispersione atopica, perseguita cioè tramite quella matrice figurale che fa di ogni luogo il tracciato evanescente di un limite apposto alle cose, il quale tende sempre però ad azzerarsi nella dura persistenza di resti rappresentativi cariati dall’inconscio rimando ad un hors-champ avvolgente ma insensibile. Tale oscillazione mette in movimento lo spazio, lo sfalda; deputato inizialmente ad essere lo sfondo fisso di una scena ambigua, lo spazio diventa esso stesso scena animata, costellazione lenta di una iconografia schizoide pervasa dal sordo trascorrere in esso di oggetti e corpi, i quali vi si muovono come su di un allucinato schermo adibito ora a cornice informe di un’azione senza effetti (e forse senza soggetti), ora a scenografia segreta di uno sguardo che ci colpisce con la lancinante e trasparente ferocia di un grido nella notte.

Ma perché parlare di uno spazio apofatico? Perché nell’opera di Francesca Woodman esso è un dato simultaneamente irrefutabile e inammissibile: irrefutabile, in quanto ogni sua fotografia non può prescindere da un rapporto intestino con una dato spaziale talmente incisivo da non poter essere mai escluso; inammissibile, perché lo spazio qui non è mai la semplice coordinata di una collocazione materiale dei corpi e degli oggetti ritratti, ma è sempre lo spazio della visione, ove la notturna porosità della luce e la contrazione vegetale di una mano abbandonata si fondono in una sonnolenta danza, le cui esitanti movenze culminano nel cifrato contagio di forme cieche. Uno spazio diventa apofatico momento in cui la superficie bianca e nera dei segni visibili palesa una soffusa parentela di incubo con ciò che in quello stesso spazio per un attimo è portato non solo ad emersione, ma è condotto fino al limite estremo del proprio darsi in immagine, del suo specifico farsi immagine, che oltrepassa i limiti stessi della sua presenza verso una manifestazione negativa della sue polarità morfologiche, le quali si liberano in una misteriosa efflorescenza di masse organiche fermate in un divenire senza durata, come cristalli di tempo, ove corpi e luoghi siano i calcinati simboli di una morte imperfetta.

Lo spazio inoltre è apofatico perché negativo, duplicemente negativo: da esso è impossibile fuggire, la figure vi si muovono, vi strisciano, vi si agitano o mimano la morte consapevoli del fatto che da esso non v’è possibilità di uscita; perfettamente chiuso sul proprio vuoto centrale, lo spazio in questione ammette un altrove interno ad esso, intestino alle proprie strutture, ma non ammette un fuori, non ammette un al di là postulabile oltre la spessa coltre di luce che filtra dalle finestre accecate di bianco, rese opache dal lucore insopportabile che impregna i vetri, flagella i corpi, schiuma sulle pareti facendo di quegli ambienti il teatro per un solitario delirio di abbacinata visibilità. Ma in quello spazio è impossibile anche entrare. Non vi sono vie d’acceso, le porte — assenti, quando non divelte e spostate al centro della scena — si aprono su altre forme di spazio tremendamente affini a quello in cui si svolge la scena ritratta. I corpi in esso presenti sembrano nati dalle sue stesse pareti, una sorta di immonda germinazione a metà tra l’organico e il minerale ha prodotto quelle figure umbratili e lemuriche, le quali a volte sembrano prossime a riassorbirsi in esso, altre volte sono colte sul punto di distaccarvisi, per iniziare una inesausta e stremata deambulazione, che le condurrà unicamente ad arenarsi nel luogo stesso da cui erano sorte.

Lo spazio apofatico è il luogo di incubazione di un’immagine che, come vedremo, strappa la figura al figurativo esponendo il corpo ritratto ad un passaggio al limite della rassomiglianza, in forza del quale il soggetto ritratto diviene la membrana vibratile di un doppio scambio tra gli ambienti in cui si trova e lo sguardo a cui si presenta. Prese e sorprese tra lo spasmo e lo specchio – lo spasmo di un luogo sotterraneamente multiforme, tramato di interferenze trasversali che mettono in moto il gioco di rimandi interni tra le parti, in modo da renderlo tanto più coeso attorno ad un centro vuoto quanto più proliferante, e lo specchio diffuso in una puntiforme disseminazione di riflessi ormai definitivamente inassimilabili all’oggetto da cui derivano – le immagini di Francesca Woodman liberano una potenza illocalizzabile di dissomiglianze raccolte tutte all’interno di invertebrate cellule spaziali in cui la dedalica epilessia morfologica [2] dei corpi fotografati si schiude attraverso sonnamboliche e latenti infiorescenze, le cui molteplici tendenze alla trasformazione e alla deformazione non risultano mai sedate.

Lo spazio apofatico assomiglia pertanto a
un jeu d’éventail dont les lames dépliées font vibrer sur des formes, des motifs, une lumière palpitante et ajoutent dans ce courant frémissant une obscurité faisant trait d’une surface à l’autre […]; c’est en somme l’illusion d’un labyrinthe […], la succession d’un plan imprevisible […] de pièces, d’angles et de détails qui ne communiquent plus entre eux que par les séquences d’une obscurité indevinable, et dont un caprice fait cette collection de plans troués, bouchés, vus les uns et les autres par des yeux différents. [3]
Lo spazio apofatico dunque, mediante un complesso sistema di raccordi e inclusioni, sviluppa attorno ad esso una serie di luoghi congetturali che trasfigurano la scena centrale in una matrice frammentaria, al centro della quale è possibile riconoscere un’intensa zona di produzioni immaginarie. Questa zona ha simultaneamente una funzione di disinnesto e protezione: delimita un ambiente privilegiato e fuori contatto, che il rigore della sua architettura libera da ogni compromissione con l’esterno; trasforma il volume di quella scena in una regione neutra, enigmatica, indecifrabile, che tuttavia è possibile portare al collasso e far implodere unicamente traversandola con lo sguardo.


2. L’écume du vide(re)...

Lumière qui ne se contractait pas en se retirant, mais demeurait là,
nue, agrandie, péremptoire, se brisant de toutes ses artères contre nous.
(R. Char)





Le pareti sono assolutamente spoglie, intrise di un biancore innaturale, molesto, diffuso come una tabe indicibile e sconosciuta che ne screpola le superfici, le rende a volte stranamente granulose altre volte le picchietta di punti neri, piccole zone necrotiche dalla cui macerazione probabilmente sorgerà un altro spazio malato.

In esso campeggia il corpo di una donna; la sua nudità risuona nella totale povertà dell’ambiente in cui è posta, seduta su una sedia di legno, stringe le gambe e, fra esse le mani, creando una figura dolcemente armoniosa. Il gesto, che vuole essere di protezione, mette in mostra i seni, porta lo sguardo a soffermarsi sul petto e poi a salire verso il volto, dove troviamo un altro sguardo, acuminato e inflessibile, ma al tempo stesso intimorito e pervaso di mestizia. La donna ci osserva, mentre noi indugiamo sul suo corpo nudo, i suoi occhi ci sorprendono, ci scrutano, ci sorvegliano, si posano su di noi e colgono la perplessa nudità del nostro sguardo, impietoso e rapace, che però d’improvviso si scopre essere impotente, goffamente impudico, grottescamente indiscreto di fronte all’altro sguardo, quello impersonale e perentorio della donna.

È stato probabilmente Blanchot a descrivere per primo una situazione affine a quella in cui ci troviamo noi, nel momento in cui i nostri occhi incontrano quelli del soggetto ritratto in questa foto. Si leggano, giusto a titolo d’esempio, queste poche righe di Aminadab, in cui l’autore descrive un’esperienza simile a quella appena analizzata [4]:
C’était un visage triste […], sur lequel les traits, flous, comme effacés par le temps, avaient perdu toute signification. Ce qui comptait encore, c’était le regard. Le peintre lui avait donné une expression étrange, non pas vivante, car elle semblait au contraire condamner l’existence, mais liée au souvenir de la vie par une réminiscence perdue au milieu des décombres et des ruines. [5]
Ma in seno a questo sistema vi è un altro sguardo che inaspettatamente ci colpisce. Dal volto passiamo di nuovo al corpo e in esso scorgiamo un’altra presenza: le braccia incorniciano un viso, i capezzoli diventano un altro paio di occhi fissamente puntati su di noi, un regard pectoral [6]; è questa volta uno sguardo alieno, un volto involontario secreto dal corpo. Dalla postura di impossibile difesa assunta dalla donna si libera qualcosa, come un doppio mostruoso e pervasivo del nostro stesso sguardo. L’occhio non incontra più l’espressione smarrita e interrogativa del soggetto ritratto, ma sprofonda in uno specchio ove la figura che appare non ammette riconoscimento, elude ogni presupposto (o presupposizione) di identità, si fa avanti come una presenza senza nome e senza forma, dal centro della quale noi non vediamo nient’altro che il rovesciamento ironico e doloroso del nostro stesso vedere.

È uno sguardo assolutamente anomalo: cieco e opaco, esso non vede e non guarda nulla; in compenso però questo sguardo non fa altro che mostrare e smascherare la natura voracemente voyeuristica dei nostri stessi occhi. Là dove supponevamo di trovare il corpo di una donna passivamente offerta alla nostra degustazione ottica, in realtà incontriamo un doppio sinistramente retorse del nostro sguardo. D’improvviso esso non si riversa più sulla donna, ma in preda ad un volteggio involontario si gira su stesso e rivolge a sé lo stesso tipo di attenzione che fino a qualche secondo prima aveva rivolto al corpo nudo.

Penetrato senza sapere come in quello spazio ignoto — così come la donna si trova in esso probabilmente senza conoscerne il motivo — il nostro sguardo non può più uscirne: le due grandi superfici abbacinate di luce che racchiudono il corpo in uno scrigno di cecità alludono perversamente a delle modalità di visione chiamate qui in causa unicamente per essere frustrate: sulla sinistra vediamo una vasta superficie bianca, coi margini in rilievi scanalati che mettono in evidenza quello stesso spazio vuoto, trasformandolo in una sorta di finestra aperta sull’interno ove si viene a svolgere la scena, una finestra muta. Da essa non è possibile guardare o accedere all’esterno, ma piuttosto la sua densa opacità rende lo spazio ancora più asfittico e desolante.

A destra scorgiamo un ulteriore sdoppiamento di questo sguardo a cui è negato l’esterno. Questa volta si tratta di una finestra a tal punto impregnata di luce da occludere ogni visibilità: il vetro è praticamente polverizzato da un’ondata di bianco; tuttavia la luce che filtra da fuori — ma non potrebbe dare quell’apertura su un altro spazio simile quello in cui ci troviamo? — non allaga minimamente l’interno, si arresta sugli infissi mettendone in risalto i bordi, neri e netti come un ordine di arresto impartito alla luce stessa, che è tenuta a raccogliersi tutta sul vetro.

Dobbiamo quindi supporre che nello spazio di questa immagine i rapporti tra luce e ombra, oscurità e abbacinamento obbediscano ad altre leggi.

Qual è la fonte di luce interna allo spazio? La domanda è destinata a rimanere inevasa. L’aspetto più sconvolgente di questa fotografia è che corpi e oggetti non hanno alcuna ombra. La luce qui è una postulazione illusoria: non è la stessa che arriva dall’esterno — quindi, anche ammettendo che la finestra dia su un altrove, l’incomunicabilità tra i due luoghi è in ogni caso piena e assoluta —, ma non deriva neppure da fonti interne allo spazio in questione. Onnipresente, aggressiva, onnipervasiva la luce qui è un oggetto senza causa e senza origine, implacabile si posa sul corpo della donna come un velo osceno che invece di nascondere svela, aleggia ignota e ingiustificabile, simile ad un’infezione di cui l’immagine che vediamo è il macroscopico e tuttavia misterioso sintomo.

Ma è giusto sostenere che non vi siano ombre? Osserviamo meglio la scena: ai piedi della donna una sagoma scura si distende come un’impronta mutila lasciata (o disegnata) da un corpo ora scomparso. La traccia è nerissima, risalta a fronte della pioggia di luce che la circonda, ad essa mancano gli avambracci e una gamba, come inghiottiti dal pavimento o forse svaniti, ed ha il capo leggermente reclinato verso i piedi della donna, la quale sembra ritrarsene con uno scatto rapido, come se la sagoma si fosse mossa strisciando verso di essa.

Ma di chi è quella sagoma scura e anonima? Perché la donna, se davvero si ritrae da essa, non la guarda ma piuttosto concentra tutta la sua attenzione su di noi? La fotografia naturalmente non offre repliche a queste domande, ma anzi ne suggerisce sempre di nuove, ci assedia e ci inquieta come un rebus ove la chiave per la soluzione è legata quasi interamente al nostro prendere parte alla raffigurazione enigmatica, come se fossimo noi in sostanza il dato incongruo in seno ad essa.

Facciamo allora un piccolo riepilogo: un unico spazio, spoglio e semplicissimo. Due finestre, la prima — quella di sinistra — paradossalmente rovesciata rispetto alla funzione abituale di una finestra, sagomata sulla parete come un’apertura muta, un riquadro bianco e ingiustificabile, spalancato sull’interno stesso dal quale lo sguardo si aspetterebbe di poter accedere verso un ipotetico fuori; l’altra, ebbra di un lucore sinistro e ottenebrante, rafforza senza tregua la vocazione soffusamente claustrofobica del luogo, sembra tumulare la donna — e noi con lei — in quello spazio lievemente inclinato in cui il nostro sguardo è caduto in trappola. Due corpi: quello della donna e quello della sagoma nera, due figure che si fronteggiano e si rispecchiano, in parte sembrano compensarsi — la sagoma è stesa orizzontalmente in tutta la sua lunghezza, là dove la donna è raccolta in postura verticale. Al centro di questo strano reticolo di rapporti imprecisi e ipotetici, sfocati e devianti, lo sguardo — il sistema di sguardi messo in campo da Francesca Woodman — diventa per un attimo indipendente da ogni source optique [7] e invece di rendere manifesti gli oggetti sui quali esso si posa, diventa esso stesso percepibile come una patina immateriale e polimorfa posata torpidamente e nervosamente sulle cose.

L’immagine immobilizza l’istante in cui i due tipi di sguardo collimano forse per l’ultima volta e prendono dunque a separarsi definitivamente: a sinistra abbiamo la sagoma nera e la superficie bianca, spoglie vane della nostra protensione scopica mandata a vuoto, rimasta senza presa, neutralizzata in uno spazio di visione in cui non appare più nulla se non l’assentarsi stesso di ogni oggetto; a destra invece troviamo il corpo della donna e la finestra assurdamente oscurata di luce: qui lo sguardo è attratto per essere disinnescato, capovolto, violentemente condotto a spalancarsi unicamente su se stesso; è per questo motivo che la donna non guarda e non teme la sagoma, sua inane ipostasi ormai decaduta dal suo corpo — e forse mai appartenutale.

Il corpo e il vetro — superfici sensibili e magnetiche per ogni sguardo, emblemi di una visione che tende a possedere l’oggetto guardato o a trascurarlo per dirigersi oltre — dispiegano la delirata panoplia di un’immagine che, sottrattasi alla sua funzione abituale di mostrarsi allo sguardo, improvvisamente mostra lo sguardo, mostra ciò che è lo sguardo esibendolo nella sua scabra nudità, rivelandolo attraverso la messa in luce del segreto del suo contrario, ricorrendo ad un’operazione affine a ciò che Freud avrebbe definito Verkehrung ins Gegenteil e che noi potremmo definire, quale doppio simmetrico e inverso della Schaulust, con la formula di angoisse du visuel. [8]

Ecco che lo sguardo, desoggettivato, privato d’una titolarità specifica e determinante, dissociato dalla mera fenomenologia di una mirata prensione scopica, diventa émanation flottante, un fluide che, tra attrazione e repulsione, amplifica la scena in cui si agita, come una sorta di sotterranea eco visiva che trama in quello spazio una tessitura infinita e senza sbocchi, una ragnatela di Möbius ove lo stesso sguardo è simultaneamente mosca e ragno.


3. Immacolata concrezione

A hole in the space shall keep the shape of thought
(D. Thomas)


Al di là del principio del dettaglio [9] l’immagine secerne la propria degenere sostanza di interrogazione scagliata contro la ingenua rappresentabilità delle cose. Il dettaglio non solo appartiene ad un immaginario diverso da quello dell’intero in cui esso è — o dovrebbe essere — inserito e dal quale si distacca opponendovisi, ma possiede un immaginario proprio, è esso stesso a prodursi secondo una matrice di figurazione del tutto atipica, anomala, inedita.

Ma che cos’è un dettaglio? È stato soprattutto Daniel Arasse a porsi questo problema e a tentare di risolverlo in un saggio del ’92. [10] Rimandando a quel testo per una trattazione più diffusa della questione, cercheremo di mettere a punto qui un approccio al dettaglio partendo da uno scatto di Francesca Woodman:





Le pareti sono le stesse dalla foto precedente: anche qui, affette da una lebbra incurabile, esse si screpolano, s’esfoliano, in modo diffuso e puntiforme si desquamano in una teratologica calcografia di profili e sembianze, venature e essudazioni che sommuovono e travagliano la superficie del muro trasfigurandola in uno schermo ove «la secca ebollizione di vestigia [è] immersa in una intossicazione profonda», per citare Artaud. [11]

Anche qui il corpo è raccolto in una postura che per un attimo fa pensare ad un tentativo di protezione, di difesa, una postura assunta al fine di offrire al nostro sguardo la minor superficie possibile della sua figura; anche in questo caso il volto è girato verso di noi: la donna ci osserva, oppone il suo sguardo al nostro, lascia che il suo occhio s’incunei con affilata ostinazione nel nostro.

In questa fotografia però vi è qualcosa di più: innanzitutto un vestito, strappato, da cui si intravede appena la morbida curva del seno sinistro e una parte del fianco. Ma vi è soprattutto un’altra cosa da cui l’occhio è repentinamente e perversamente richiamato, come in preda ad un’attrazione tanto più trascinante quanto irragionevole e torbida: la macchia scura che galleggia sul capo della donna. Simile a un inquietante punto focale, a partire dal quale la rappresentazione déraisonne, ogni figura inizia ad essere al tempo stesso risucchiata e messa in scacco dalla sua presenza. Nei paraggi di quella macchia l’immagine prende ad abolirsi, a cancellarsi, a scomporsi in forza di un’apnea dello sguardo che riconosce in quel dato aspramente informe la soglia paradossale di una irresistibile e avvolgente fascinazione medusea.

Se, a proposito della fotografia precedente, avevamo visto l’oggetto dello sguardo sdoppiarsi, scindersi, duplicarsi dinanzi ad esso finendo con le smembralo, ora invece siamo di fronte ad un accumulo, ad una concrezione: il dettaglio accoglie in sé tutta una massa incongrua di figure potenziali che il corpo esala. Anche se la fisionomia della donna è inchiodata agli ottusi protocolli di riconoscibilità che lo sguardo le impone, da essa si libera tutta una compagine di forme — e ipotesi si forme — slegate e dislocate, una profusione tumultuosa di scarti rappresentativi, che vengono «à ouvrir en nous un intervalle d’effroi toujours réminiscent de ses propres images enfouies». [12]

Venuto in superficie come «un’apparenza accidentale del visibile», [13] quasi un ematoma sorto in seno ad esso, il dettaglio amorfo si carica di tutte le virtualità simboliche che un’immagine di Francesca Woodman è in grado di generare: simile ad un inesorabile ordigno (an)iconico, quella macchia allude ora all’eclissarsi della scena presente di fronte ad uno sguardo divenuto impotente e incapace di vedere — come quello esaminato nella sezione precedente — ora ad una sorta di pupilla crudelmente e felicemente deflagrata in una sorta di orribile cratere ottico, ove il visibile si sia ritirato come verso un infinito fondo di visioni ormai irrecuperabili.

Si osservino ora queste altre due fotografie di Francesca Woodman:


  


Nella prima intravediamo con qualche difficoltà la donna: appare come un ectoplasma opaco ed evanescente, una massa gelatinosa che ora dilaga ora si contrae attraverso quello che Jean Louis Schefer definisce «un travail de la lumière en fusion». [14] La figura qui non solo non ammette più alcuna matrice di riconoscibilità piena, ma non conosce ormai alcun vincolo di collocabilità definita: seppur anteposta al muro, essa diventa lo sfondo indistinto, mobile, lacunoso e angosciante di se stessa; manifestazione compiuta di un’afasia della luce, l’immagine della donna risalta oscuramente attraverso un’organizzazione caotica di materie eterogenee, in un pulviscolo aberrante di stoffa e carne, maceria e memorie, cosa pulsante senza corpo e senza tratti; fragile cumulo di intermittenze figurali, essa diventa una specie di osceno specchio liquido su cui però siano rimasti intrappolati ad incancrenirsi tutti i riflessi che vi si sono posati in passato.

Ma è nell’altra foto che corpo e spazio coincidono. Posti in fusione reciproca, il primo appare là dove lo strato più esteriore del muro si distacca, si lacera in brani, lacerti, brandelli, mentre la donna è intenta a sua volta a strapparsi via da quella parete instabile, incerta, superficie viscerale e inglobante divenuta ora schermo ove portare a manifestazione il corpo nell’attimo stesso in cui questo non è più distinguibile dallo spazio in cui sorge o sprofonda. Citando Gilles Deleuze, potremmo chiosare quanto detto finora osservando che la fotografia di Francesca Woodman opera un rovesciamento:
conferendo al fondo un’attività tale che non c’è più dato sapere né dove il fondo stesso finisce, né dove cominciano le forme. Il piano infatti, […] divenuto piano arretrato in virtù della distanza che crea rispetto allo spettatore, è il supporto attivo di forme impalpabili, che dipendono via via dall’alternarsi del chiaro e dello scuro, dal gioco puramente ottico della luce e delle ombre […]. Perfino il contorno cessa di essere un limite e diventa il risultato di plaghe nere e di superfici bianche [...]. Non è più l’essenza ad apparire, ma è l’apparizione che fa da essenza e da legge: [essa] procede all’infinito, cambiando continuamente direzione, perpetuamente interrotta, spezzata, perdendosi in se stessa, oppure ritorna su di sé in un movimento periferico e vorticoso. [In tal modo] il corpo eccede e manda in pezzi l’organismo. [15]
È difficilissimo, forse del tutto impossibile, stabilire se si tratti qui di una germinazione o di una contaminazione reciproca dei due elementi in gioco; però è possibile sostenere che qui è lo spazio stesso a divenire corpo ed il corpo immagine. Siamo però di fronte ad un’immagine particolare: profonda, espressione ed effetto di un nodo temporale indistricabile, polidimensionale, essa non si limita più a rappresentare la cosa, ma piuttosto la è, la incarna, la genera e la inghiotte in un processo continuo di commistione tra la figura che cade verso il fondo e lo sfondo che monta nervosamente in superficie. Tra la materia e l’immagine quindi, il corpo è l’ombra di una maceria fibrillante dispersioni e apparizioni che trasformano lo spazio stesso in visione.


4. Rapsodie d’un corpo apocrifo

Im Garten meines schlaflosen Traumes
(R. Ausländer)


Ma che cos’è il corpo in una fotografia di Francesca Woodman? Un punto irradiante, non limite ma parte mobile e destabilizzante dello spazio in cui si situa, un’abolizione centripeta che mobilita in un tragitto confuso gli spostamenti e le oscillazioni della figura. Da esso si apre un doppio versante, un sistema distorto di incroci che espandono in una torsione continua lo sguardo sottilmente hanté dalla sua equivoca presenza: il corpo genera una felpata scena-enigma ove l’erosione della figura ripete e moltiplica inesauribilmente il frangente metamorfico di ogni apparenza, frangente assurto a interminabile crepuscolo di sembianze incessanti e trascorrenti l’una nell’altra; ma esso proietta anche intorno a sé la formicolante trasparenza di un’immagine-crisalide, che nel suo contuso splendore cela sempre il livido precipitato di forme inferme, incompiute, contratte in una lenta successione di fisionomie senza contorni.

La particolarità di tale corpo è che esso riesce ad invadere lo spazio in cui fiorisce — e che pare occupare solo marginalmente — insinuandovisi attraverso la porosa rovina della luce, assediandolo dall’interno per sottrazione, scomparendovi, astenendosi dall’apparirvi e dunque incidendosi in esso sempre con incontenibile perseveranza. Il corpo qui è allora innanzitutto un dispositivo di evasione: privo di un ordine derivante da precise prescrizioni figurative, esso diventa il portato di un raffinato regime d’astrazioni, di uno scompenso dell’immagine, di una diserzione perseguita in seno al visibile stesso, grazie alla deposizione di ciò su cui questo dovrebbe vertere e convergere.

La deposizione del corpo indica in primis un suo indistinto scivolamento verso un piano di rappresentazione solitamente non adibito alla sua presentazione: la deposizione allude ad una linea di tracollo interna all’immagine, che la porta ad coordinarsi intorno ad «une boule de intentionnalité vide», [16] la quale evacua ogni designazione referenziale attraverso una erranza illimitata e stagnante, in grado di trasformare la presenza del corpo in una manifestazione di infrante latenze.

In tal senso il corpo — e, nello specifico, il corpo della donna — è l’equivalente di una Grundgestal, [17] una figura di (s)fondo, una formazione originaria attorno alla quale dovrebbe venire a concentrarsi la scena. Ma Francesca Woodman, pur ricorrendo, come vedremo, alla Grundgestalt, prende in contropiede il nostro sguardo e trasforma quella stessa scena in una sorta di paradossale montaggio strutturato lungo un doppio movimento dell’immagine a cui essa dà luogo, scandito dalla costante interazione tra osservatore e oggetto, sulla base della quale di volta in volta il primo viene a identificarsi con alcune figure che appaiono in essa «pour jouer, unique acteur, le drame de leurs conflits». [18]

Il corpo, in quanto Grundgestalt, raccoglie su di sé un nodo di percezioni discordanti, le quali invitano lo sguardo ad avanzare nel chiarore senza ombra del suo spazio immaginario, fino ad arenarsi in esso come su di uno specchio senza bagliori ove non si riflette nulla. È quindi da questo corpo che prende le mosse l’azione morfogena, [19] la quale sorregge e produce l’immagine, caricandola d’una oscura evidenza, adibendola a polo delle identificazioni definitive che inducono l’osservatore a partecipare a quei giochi di occultamento, i quali traducono l’immagine stessa in un immenso reticolo di captazioni deviate. Siamo così di fronte all’avvolgente topologia di un insabbiamento che procede per vaste scissioni figurali, nello spettro delle quali il corpo si fa Bildspaltung, ovvero formazione compresa (e compressa) in una sequenza di divisioni costituenti.

Ma quali sono queste divisioni costituenti che affettano il corpo? Nel corso di queste riflessioni ne abbiamo evidenziate tre: il Corpo-Spazio (terza sezione), il Corpo-Immagine (seconda sezione), il Corpo-Sguardo (prima sezione).

Avviandoci a concludere, ci sembra pertanto proficuo prendere in esame altre tre fotografie di Francesca Woodman, così da mostrare in maniera ancora più incisiva come questi tre nuclei tematici vengono a delinearsi con estrema precisione nell’opera della grande fotografa statunitense.


— Il Corpo-Spazio. Si osservi questo scatto:





È una delle rare volte in cui siamo in un esterno; esterno presto contestato però, negato, strutturato come un interno: non v’è quasi orizzonte, così come non v’è spazio per la fuga dello sguardo. I rami degli alberi a destra tessono una trama piuttosto fitta, mentre a sinistra il pendio della collina preclude ogni possibilità di guardare oltre. All’interno di questa chiusura tuttavia, si schiude una zona particolare: un rettangolo bianchissimo e senza spessore si incide in quell’arabesco monotono di rami, simile ad un silenzio visivo. L’occhio indugia e spazia su quel rettangolo e avverte sprigionarsi da esso una forza d’espansione incontenibile. A mano a mano che esso si dilata, l’ambiente circostante — che, ricordiamolo, è un esterno — sembra farsi più angusto, minaccioso, asfittico.

Il corpo è dietro — o dentro? — quello spazio impregnato di luce; indistricabile da esso, non ha contatto o relazione con ciò che lo circonda, è diventato esso stesso spazio potenziale di tutte le visioni possibili, grado zero del visibile potremmo dire, superficie tanto infinita quanto limitata di una percezione retta da un delicato sistema di incertezze. E il Corpo-Spazio prolifera grazie a queste, sfera visiva di un mondo colto ancor prima della sua nascita, aurorale tenebra bianca ove la distanza tra le figure che sorgeranno da essa e le immagini che da queste si produrranno diventa infinita, assoluta, irriducibile, come la memoria orfica di una trasparenza che finisce coll’oscurarsi solo nel punto preciso della propria origine.

Interminabile splendore di una chiarezza ignota che falsifica lo spazio da cui nasce, aprendovi il sembiante di una presenza inesauribile, remota e imminente, quella traccia senza identità è un mormorio vorace e inudibile, il segno di una intimità fredda e lancinante che noi cerchiamo col corpo che da essa sembra spettralmente promanare e sottrarsi. A partire da essa, dal suo léger remous, tutte le dimensioni dello spazio apofatico si serrano attorno a noi, spingendoci verso la profondità di una caduta interminabile; in essa noi precipitiamo immobilmente, mentre il nostro sguardo vi affiora come il corpo di un annegato, tumefatto e abbandonato, destinato a scivolare per sempre sulla superficie pulsante di un’immagine che ha fatto della propria evidenza l’ineffabile riflesso del vuoto, quasi la «couleur-de-vide suspendue dans la lumière d’une béance» [20]:
[sentivo] l’angoisse […] qui me rappelait la présence de cette figure, fixée en un seul point par le fait que je la fixait: elle n’était plus alors que ce point, un point vide, silencieux, un instant vide, devenu tragiquement étranger à mon regard au moment même où celui-ci devenait l’erreur de ce qui fixe, et mon regard lui-même était vide, ne pénétrait pas dans cette zone, y pénétrait sans l’atteindre, ne rencontrait que le vide, le cercle fermé de sa propre vision. [21]


— Il Corpo-Immagine:





ancora una volta il tipico interno à la Woodman. Ma il titolo qui è chiaro, non lascia adito ad alcun dubbio: my house. Guardiamo un attimo questa fotografia: l’ambiente è desolante, abbandonato, polveroso, fatiscente. Dallo scaffale vuoto pendono stracci, a terra vi sono sacchi di plastica trasparente, lasciati lì come le vestigia di una presenza umana estinta da tempi immemorabili. L’interno è forse dismesso da molto, o forse in realtà nessuno l’ha mai occupato; probabilmente è stato abitato così, spoglio e inospitale, volutamente inutilizzabile, appena sfiorato da quella presenza a cui il titolo con crudele ironia sembra alludere.

Ma guardiamo meglio: nell’angolo tra la parete e la finestra appare qualcosa, svetta un oggetto piuttosto grande imbustato in uno di quei sacchi che occupano il pavimento. Si tratta ora di affinare lo sguardo e di penetrare dentro, oltre la torpida opacità che la plastica oppone ai nostri occhi. Con estrema lentezza e somma difficoltà da quella babele di pieghe e riflessi, rientranze e rilievi si delinea vagamente il profilo di un’anca, poi le gambe, forse una spalla, e la parvenza di un braccio; non è possibile distinguere in alcun modo né il capo né il volto.

Senza preavviso e in modo sconnesso appare un corpo altamente indifferenziato, una masse mouvante difficilmente distinguibile dall’involucro in cui è sepolta: a volte sembra distanziarsi da questo imballaggio, altre volte si fonde senza resto con esso, diventa un’unica informe traccia sconosciuta da cui è ormai impossibile sceverare la figura umana, poiché anche in questo caso essa è sfigurata, condotta a quella dénégation de sa propre image [22] che culmina nella coalescenza materiale dei due elementi in gioco, ovvero il corpo e la plastica, lo spessore (negato) del primo e la superficie (dilagante) della seconda.

Espropriato da ogni regime di riconoscibilità immediata, il corpo è il denso focolaio di allucinazioni svincolate da ogni presupposto antropomorfico: esso vi appare come una figura transitoria, incompleta, alienata, scarto trascurabile all’interno di resti figurativi colti nel frangente della loro scomparsa. Il corpo diventa allora qui la frontiera tra due eccessi: la rarefazione dell’oggetto, che finisce col perdersi al di sotto della soglia del visibile, e un incremento innaturale di visibilità che, venendosi a concentrare su quello, conduce ad un punto di catastrofe della sua riconoscibilità. È in tal senso quindi che il corpo assurge ad equivalente di un’immagine, anzi dell’immagine originaria, sempre dilaniata dal vacillamento continuo e irriducibile tra l’invisibile e l’amorfo. A questo proposito nota giustamente Blanchot:
l’essence de l’image est d’être toute dehors, sans intimité, et cependant plus inaccessible et mystérieuse que la pensée du for intérieur; sans signification, mais appelant la profondeur de tout sens possible; irrévélée et pourtant manifeste, ayant cette présence-absence qui fait l’attrait et la fascination des Syrènes. [23]


— Il Corpo-Sguardo:





Vi è innanzitutto un dato macroscopico che non può non sorprendere chiunque si trovi a guardare questa immagine: si tratta dell’incredibile profondità di campo — insolita negli altri scatti di Francesca Woodman — scelta per la messa in scena. Ma messa in scena di che cosa? Innanzitutto del vasto spazio vuoto che s’apre tra il nostro occhio e il fondo dove si accumulano oggetti vari, una sorta di riproposizione novecentesca dello studiatissimo pêle-mêle che campeggia dietro gli Ambassadors di Holbein. [24] La profondità di campo è utilizzata con una grazia perversa: la lunghissima traiettoria sagittale a cui è invitato l’occhio proprio a causa dell’ampio spazio lasciato vuoto nel secondo piano, è subito disorientata, costretta a frantumarsi in un delta di sguardi parziali e distratti, che si posano ora sui mobili, ora sui gatti, ora sulle assi del pavimento, ora sulle finestre, ora sulla massa nera che incombe sulla destra dell’immagine.

Ma prima di arriva ad essa è bene soffermarsi su altri due dettagli. Innanzitutto lo specchio in fondo, posto frontalmente a noi, rappresenta il doppio simmetrico e inverso della scena che stiamo osservando; la superficie riflettente infatti mostra una parte di ciò che vedremmo se fossimo là dove essa si trova, costituendo così un rovesciamento e un’integrazione della nostra prospettiva, un ampliamento del nostro sguardo, che in tal modo riesce a cogliersi anche da un altro punto di vista, frontale ma opposto ad esso.

Ma questa fotografia non va letta solo seguendo la direttrice sagittale. Essa propone anche una chiave di lettura legata alla sua strutturazione orizzontale. A sinistra, dietro il primo gatto, troviamo un telaio rettangolare, di ferro; si tratta, pare, di una cornice, forse di un quadro, molto più probabilmente di uno specchio da toilette. Esso è vuoto, non racchiude niente, si lascia attraversare dallo sguardo facendolo quasi girare su se stesso. L’occhio incontra in quel telaio lo scheletro, la carcassa di quello spazio immaginario in cui esso aveva creduto per un attimo di riconoscere la propria onnipotenza e la propria onnipresenza all’interno della scena; quel relitto di specchio attira quindi lo sguardo su di sé per farlo sbattere contro una parete grigia e insignificante.

Ma spostiamoci ora sulla destra: ecco che la grande macchia scura a cui facevamo prima riferimento prende a definirsi. Coperta da un telo scuro, intuiamo confusamente la presenza di un corpo; nonostante ciò però l’attenzione è subito tutta magnetizzata dalla macchina che sbuca da quel telo, dal dispositivo di predazione delle immagini piantato duramente e ostinatamente su di noi, quasi contro di noi, interposto tra noi e quel corpo incoglibile, solo congetturabile, celato nel suo stesso manifestarsi come un dato refrattario ad ogni visibilità. Ma cosa vuol dire questa disposizione? Semplicemente Francesca Woodman ci fa capire che tutta la scena finora descritta non è altro che una geniale e formidabile parodia dell’immagine che sta per essere effettivamente scattata — esattamente come la cornice dello specchio era solo una brutale parodia dello specchio posto in fondo alla stanza —, alludendo in tal modo al fatto che ciò che sta per diventare oggetto — passivo e inconsapevole — della fotografia non più il (suo) corpo, ma piuttosto siamo noi, trasformato in punti ciechi di un’immagine che improvvisamente ha spalancato i suoi occhi su chi presupponeva e si illudeva di poterla scrutare senza esser(n)e visto.

Se nel primo caso il corpo era diventato lo spazio da cui sarebbero affiorate le immagini, e nel secondo caso quello stesso corpo si era trasformato nelle immagini sorprese nella loro embrionale potenza metamorfica, ora il corpo coincide esattamente con lo sguardo deputato a intercettare e decifrare quelle stesse immagini. Ma, a differenza del Corpo-Spazio e del Corpo-Immagine, il Corpo-Sguardo introduce una dissociazione all’interno della visibilità: ridotto a poche elementi appena riconoscibili — una gamba, una mano, un occhio meccanico inespressivo e inflessibile — esso si dissolve, viene definitivamente riassorbito in quella specie di sconosciuto totem che campeggia sulla destra della fotografia, impenetrabile e minaccioso.

Lo sguardo si schiude dal centro cieco di ciò che prima era solo osservato. È ora il corpo stesso a guardare ciò che non riesce a vederlo; ecco perché, rispetto alla fotografia presa in esame nella prima sezione, in questa immagine l’emancipazione del corpo da ogni sua riduzione a mero oggetto è compiuta, ed è compiuta grazie ad un trauma profondissimo operato in seno al visibile: la precisione di quello sguardo che ci prende di mira e ci tiene in scacco sorge da un corpo delirato nell’amorfo e che è tanto più corpo quanto più ormai non può essere riconosciuto come tale. È dunque proprio l’ellissi del corpo a permettere l’instaurazione di eine eindere Schauplatz in cui esso funziona come un piège à ressemblances che lascia deflagrare il proprio sguardo nell’intimità di ogni vedere. Pertanto
tout le système et l’appareillage d’encerclement, d’encadrement d’encagement, d’éclairage et de soutien de figures fait un décor paradoxal: l’espace vaut pour du vide, ce vide est inexpressive […]: le corps est posé là non pas comme une force d’expression détournée, ou une violence intériorisée qui en commence l’anamorphose; masse en cours d’organisation ou de déplacement interne qui ne peut plus affecter la configuration de l’espace […]. Travail en effet de digestion visible de tout l’indéfini de la chair par la figure, le corps n’est ni solution, ni problème, ni réponse: il est énigme de toute sa surface, de son volume, de son mouvement. Qu’est-ce alors que le corps? Une limite d’imagination et la borne figurative du corps propre fait chose, pensée et animal; une espèce d’anatomie improbable – l’ordre physiologique et anatomique dont la séparation entre un dehors et un dedans a fait tout l’onirime du corps lié […] à l’effet de son inscription, c’est-à-dire de son devenir visible: ces ordres mêlés font la singularité du corps et […] l’énigme de son portrait. [25]


[1] J. Lacan, Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 11. Sottolineatura nostra.
[2] Cfr. G. Didi-Huberman,Invention de l’hystérie, Macula, Paris 1982, soprattutto pp. 121 sgg.
[3] J.-L. Schefer, Figures peintes, POL, Paris 1998, p. 184.
[4] L’unica differenza sta nel fatto che Thomas, il protagonista, sta osservando une peinture.
[5] M. Blanchot, Aminadab, Gallimard, Paris 1943, p. 23.
[6] J. Paris, L’espace et le regard, Seuil, Paris 1965, p. 47.
[7] Ivi, p. 41.
[8] Il visuel a cui facciamo riferimento qui è quello delineato da Didi-Huberman in molte delle sue opere e, nello specifico, in Invention de l’hystérie e Devant l’image (cfr, nota 2 e successiva).
[9] Cfr. G. Didi-Hubernan, Devant l’image, Seuil, Paris 1990, pp. 271 sgg.
[10] D. Arasse, Le détail. Pour une histoire rapprochée de la peinture, Flammarion, Paris, 1992. Da tenere in considerazione per il nostro discorso è soprattutto la sezione intitolata La double dislocation du détail, pp. 223 sgg.
[11] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, p. 182.
[12] G. Didi-Huberman, La ressemblance informe, Macula, Paris 1995, p. 326.
[13] A. Artaud, cit., p. 187.
[14] J.-L. Schefer, cit., p. 256.
[15] G. Deleuze, Francis Bacon, logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 2008, p. 194-196.
[16] J.-L. Schefer, cit., p. 123.
[17] Nel forgiare il termine /Grundgestalt/ palesiamo naturalmente i nostri debiti nei confronti della /Grundsprache/ lacaniana. Cfr. J. Lacan, cit, pp. 537 sgg.
[18] J. Lacan, cit., p. 89.
[19] Ivi, p. 191.
[20] Ivi, p. 851.
[21] M. Blanchot, Celui qui ne m’accompgnait pas, Gallimard, Paris 1953, p. 74.
[22] La formula è di Schefer, ma è bene ricordare che /dénégation/ è il termine adottato da Lacan nel corso degli Écrits per rendere in francese la Verneinung freudiana.
[23] Citato in R. Barthes, Oeuvres complètes V, Seuil, Paris 2005, p. 873.
[24] Rimandiamo qui alla magistrale e insuperata analisi dell’opera in questione condotta da Omar Calabrese in La macchina della pittura, Laterza, Bari-Roma 1985, pp. 53-76.
[25] J.-L. Schefer, cit., p. 242.


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